A cura del sig. Francesco Mancini
Ai miei tempi la migliore marca dei fonografi a tromba, a manovella, a
puntine intercambiabili, era per l’appunto “La Voce del Padrone”.
C’erano dei maligni, fascisti e non, che insinuavano fosse invece la “Voce
del Duce”, il che per loro avrebbe dovuta essere la stessa cosa.
In casa nostra su un mobiletto troneggiava uno di questi fonografi, con
l’amplificatore costituito da una enorme tromba di ottone dai bordi ondulati,
che era mia cura lucidare a fondo con il Sidol sino a specchiarmici dentro,
ovviamente deformato.
Non parliamo poi dei dischi a 78 giri, pesanti, fragili, con musica di durata
pari a qualche minuto, non più di tre, senza dire di quelli cosiddetti giganti,
con diametro pari ai long-playng degli anni 70 – 80, che pesavamo uno
sproposito, erano ancora più fragili e, quanto al costo, meglio non parlarne.
I dischi a mia disposizione erano per lo più di canzoni tango, valzer, polke,
mazurke, pezzi di varietà di Petrolini, il preferito da mio padre, più alcuni
americani rimediati al mercato di Porta Maggiore.
Con i dischi, che chiamavamo pomposamente “ballabili”, comprese alcune novità
USA e sud-americane, organizzavamo qualche pomeriggio di “danzatine”,
soprattutto in case di ragazze in cerca di fidanzati, promotrici loro e le
madri, future suocere degli ignari invitati, le quali preparavano pure qualche
torta o dolce spartano per componenti, qualità e quantità. Da bere aranciate,
Coca Cola, qualche bicchierino di liquori fatti in casa e imitazioni disgustose
di cognac.
Non parliamo dei passi di danza. Accantonando i pochi ritmi d’oltreoceano, per
i quali dovevamo inventarci tutto, resta che le cadenze degli altri erano sempre
basate su due, tre o quattro passi (tango, valzer, polka ……), ed essendo noi
tutti ex balilla, ne nasceva una specie di marcia, con sbattimenti di tacchi e
giri a destra – sinistra che somigliavano troppo ai fianc-des, sinis, dietro
front della GIL.
Comunque andiamo al 1945. La guerra al nord si sta’ concludendo, mentre a Roma
ci sono gli americani da quasi un anno. Arriva il 21 Aprile. Natale di Roma,
nonché festa del lavoro e, mentre per la R.S.I. sta’ andando tutto a rotoli,
alcuni di noi, ancora appassionati del Duce, su mia proposta, tenteranno di far
ricordare quella data un tempo importante, troppo presto dimenticata.
Allora io, profittando di essere solo in casa, con mio papà al lavoro, mio
fratello militare con gli alleati, mia madre in Umbria, fingo che la nostra casa
sia chiusa per assenza di tutti, sbarro le persiane delle finestre, che sono
tutte al quinto piano e danno sulla via pubblica, piazzo il fonografo “La Voce
del Padrone” sul davanzale interno, faticando anche per ben sistemarlo, poi
monto la tromba di ottone poggiandone l’ampia apertura contro la parte interna
delle persiane. Il tutto non visibile dall’esterno.
Fatto ciò pongo sul piatto un disco che nelle due facciate porta la “Canzone
del Piave” e “Giovinezza”, entrambi senza coro, solo musica, acquistato da
mio padre quando gli girava l’umore a favore del Duce, e non come ora che è
mezzo rosseggiante.
Sulla via ci sono due miei amici che faranno finta di transitare, onde
controllare l’effetto della trasmissione che fra poco inizierà.
Controllo i particolari. La puntina è nuova di zecca, il motore a orologeria
l’ho caricato al massimo con l’apposita manovella, il disco il suo lavoro
dovrebbe svolgerlo egregiamente.
A scanso di equivoci al portiere ho fatto capire che sarei stato fuori per la
scuola tutto il giorno e sarei rientrato il pomeriggio. Ero quindi deciso a non
uscire più di casa sino all’arrivo di mio padre.
Il grammofono l’avevo posto dietro l’ultima finestra, quasi adiacente al
termine del palazzo, sul cui muro si era collegato un altro edificio della ditta
Lamaro, così poteva pur sembrare, eventualmente, che l’inno infamante
provenisse da loro, non da noi.
Ultimi controlli e, per avviare l’atmosfera, utilizzo prima la parte B, quella
con la canzone del Piave, meno usurata della prima. Il disco parte, il fracasso
in casa mi sembra enorme, mi immagino tutti a bocca aperta ad ascoltare col naso
all’insù. Dalle barrette oblique delle persiane non riesco però a vedere la
strada e quindi mi devo immaginare la scena. I tre minuti di diretta passano in
un attimo, ricarico il fonografo, giro il disco, non posso alzare il volume in
quanto è fisso, e via! parte “Giovinezza” a tutta birra, soliti tre minuti
di emissione fonica, ricarico, e di nuovo “Giovinezza”.
Mi ritengo un temerario, oltretutto nel nostro palazzo sono ferrovieri rossi ed
è anche una mezza succursale delle sezioni del Partito Comunista del quartiere
e delle sedi del lavoro. Vorrei tentare una terza volta con “Giovinezza”, ci
penso e poi, ma si! comunisti al diavolo! Il Duce un’altra trasmissione se la
merita, e via di nuovo con “Giovinezza” vecchia maniera, cioè “Salve o
Popolo d’Eroi”, la cui musica è meno scattante del successivo “Allorché
dalla Trincea”.
Poi rimetto il fonografo al suo posto, nascondo nel palchettone del bagno il
disco incriminato, e mi accingo ad attendere l’arrivo della polizia per
arrestarmi, o dei partigiani e scalmanati rossi a cercare di buttar giù
l’uscio di casa, e magari me dalla finestra.
Non avviene nulla, passa un’ora, due, seguita a non accadere nulla. I miei
amici mi riferiranno solo in serata in quanto per tutti, portiere e loro, io
sono fuori per studio, mentre per il lavoro gli impegni saranno invece notturni.
Arrivano le diciotto, giunge mio padre, faccio vedere di essere rientrato da
poco. Ceno qualcosa con lui e poi fuori, a sentire i miei collaboratori-amici,
finti passeggiatori ignari.
Il risultato è plurimo, anzitutto il fonografo a tromba non era un mostro di
decibel come gli altoparlanti odierni, e quello che a me all’interno era
sembrato un fracasso infernale, al di fuori, cinque piani sotto, non risultava
niente di speciale, poi alcuni passanti si erano fermati, avevano scossa la
testa, come per dire, ma chi è il matto? e se n’erano andati. Altri non
avevano nemmeno capito che inno fosse. Il portiere era stato avvicinato da
alcune mogli di rossi le quali gli avevano ventilata l’ipotesi che,
conoscendomi, l’idea di quella pagliacciata fosse mia e la musica provenisse
dalla nostra casa, ma Gildo, il portiere, giurò che da noi non c’era nessuno,
con mio padre al lavoro, mia madre e mio fratello assenti, e io fuori a studiare
come ogni giorno, anzi, mi aveva visto uscire con i libri sotto il braccio e non
rientrare. Allora convennero che il suono potesse provenire dal piano di sotto,
o dai terrazzi stendipanni o, ipotesi più probabile, dalle adiacenti finestre
del palazzo della Lamaro, ove alloggiavano ricchi fascisti, visto che avevano
ascensore, riscaldamento, bidet nei bagni.
Comunque, mi ripeto, non accadde nulla di nulla, il tutto alla fin fine passò
quasi inosservato se non ci fossero state delle donne che se ne lamentarono col
portiere e i mariti.
Anche mio padre mi dirà che qualcuno, da prendere solo a sberle, aveva fatto
sentire in giro “Giovinezza” (avessero mai notato l’ “Inno del Piave”)
e sembrava fossero stati i signori dell’edificio incollato al nostro. Io mi
limitai a dirgli che in fondo non era avvenuto alcun atto criminale e,
azzardando, aggiunsi che mi sarebbe piaciuto farlo io, solo che queste erano
azioni da ragazzini incoscienti e non da veri fascisti, che avrebbero saputo
fare qualcosa di più serio, e poi … anche volendo, non avrei potuto, in
quanto in casa non c’era più quel disco con “Giovinezza”, comperato da
lui prima del 1930, che si era rotto da parecchio tempo.
Insomma il 21 Aprile 1945 ci fu’ chi sentì gracchiare un macinino che
trasmetteva l’inno fascista, ad una potenza che oggi non sarebbe nemmeno
percepita dall’organo uditivo dei nostri ragazzi, rovinato dai volumi
mostruosi delle discoteche.
Resterà pur sempre la buona volontà di aver tentato di fare qualcosa.
L’episodietto di cui sopra, lungi l’idea dal vederci più di una ragazzata,
mi è tornato in mente nel rivedere in TV il film “Amarcord” di Federico
Fellini, ove un’azione del genere dovette avvenire nel paese emiliano da lui
preso come luogo della pellicola. Mi ha fatto allora constatare con
soddisfazione che non sia stato l’unico. Se ne siano avvenuti altri non lo
so’, ma il mio tentativo di certo c’è stato, senza però il trambusto
inscenato nel film, addirittura con spari di moschetti verso il malcapitato
fonografo, posto nella cella di un campanile, e olio di ricino ai sospettati. La
reazione mi è sembrata eccessiva, sia per la durata lampo di un disco da 78
giri, che in tre minuti esaurisce il suo repertorio (in quel caso Bandiera Rossa
o similare, non Giovinezza), senza che nessuno possa avere materialmente il
tempo di intervenire, sia per la potenza fonica irradiata che, se già scarsa da
un quinto piano, dovette risultare ancor più limitata dall’alto di un
campanile. Comunque, esagerazione o meno, l’episodio si sarà pur verificato,
altrettanto come il mio, svoltosi però a guerra finita, persa, e anche più
rischioso, col Duce che rimarrà vivo ancora per una settimana.
Ah! il disco consunto di “Giovinezza”, che poi si ruppe veramente!
Ah! la mia e nostra giovinezza - giovinezza che s’en fugge tuttavia!
Ah! ricordi, sensazioni, piccole emozioni, di tempi remoti!
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